Intervista ad Alan Beggin: «Mi prendo una pausa, questo mondo non mi piace più»
«Se la gente non mi capisce, non mi interessa: mi prendo una pausa. Ho deciso in questi giorni. Ho troppe cose da sistemare a casa, l’anno trascorso mi ha stravolto». C’è consapevolezza, ma anche tanta amarezza nelle parole che Alan Beggin, padovano, campione italiano di downhill da una vita e miglior tricolore al mondo nel ranking UCI, usa per congedarsi, per un anno almeno, dal mondo delle gare, da quel downhill che ama tanto e che gli ha dato tanto. «Preferisco fermarmi perché la gente mi ricordi per quello che ho fatto – continua Alan – soprattutto perché mi dà fastidio arrivare al cancelletto di partenza se so di non poter dare il massimo. Ho sempre corso al top della condizione e per vincere, ma adesso la vita è cambiata e gareggiare solo perché mi piace andare in bici non mi va. So cosa combinerei nel 2009 in questa situazione, e preferisco evitare».
Beggin è convinto, deciso. Non c’è tristezza nei suoi atteggiamenti, segno che la decisione è seria ma non cruciale: «I problemi della vita sono altri, non le gare, non il paletto, le protezioni, le skinsuit». Al termine di un anno segnato dalla morte del padre Gianni e che lo ha visto unico italiano a prendere parte a tutte le tappe di coppa del mondo, ma con risultati al di sotto delle aspettative, Alan vuole tornare alla vita normale, vuole sistemare tante situazioni, per ripartire più sereno: «So che subentreranno tutti gli altri fattori del mondo del downhill, nonostante mi faccia piuttosto schifo ultimamente, ma preferisco non rovinare gli anni passati. Devo rendere conto soltanto a me, alla mia famiglia e al team Mapei: senza di loro non avrei vissuto questi sette anni bellissimi».
La notizia della morte di tuo papà è stata in assoluto la più letta e la più commentata, anche via email, su MTBnews.it: segno che il mondo del downhill italiano ti è vicino.
Il downhill è stata la mia vita.
Per avere ciò che ho ottenuto ho sacrificato parte dell’adolescenza. A sedici o diciassette anni vai al bar o a divertirti, io invece uscivo da scuola, andavo in palestra, tornavo a casa e studiavo, andavo a letto perché ero devastato, distrutto. Solo così sono riuscito a fare ciò che ho fatto: ottavo in coppa a Pila, sesto agli europei, sesto al mondiale junior, sono riuscito ad ottenere alcuni risultati. Però adesso è più pesante… sono praticamente nato con la bici, ho visto tutti gli italiani con la mia famiglia – da quando Corrado Hérin ha vinto il primo, nel 1991 a Buti – e poi ho corso tanto. La mia squadra eravamo io e papà, ora devo fare io anche quella metà. Mio papà era operaio, prendeva le ferie per portarmi alle gare e ha sempre fatto le sue vacanze ai campi gara, per orgoglio personale. Ora, con lo stesso orgoglio, dico basta.
Cerchiamo di fare un bilancio della stagione passata.
Il bilancio, tutto sommato, può essere positivo a livello italiano, ma è stato piuttosto negativo a livello mondiale: nel 2007, con un progetto concreto e la testa che funzionava, stavo regolarmente tra i primi venti al mondo, quest’anno sono entrato nei trenta una sola volta, a Bromont, e sulla pista di Schladming, che reputo la più bella di coppa del mondo, ho fatto 62esimo, riuscendo a qualificarmi per la finale per un soffio. Non ha più senso fare una stagione intera in questo modo. Sono cambiate tante cose, tante altre mi mancano: dopo essere arrivato a quei livelli e vedendo che sto tornando indietro, ho deciso che non si può andare avanti così. Ho fatto quello che dovevo fare.
A chi cedi il testimone?
Non mi interessa cedere il testimone.
E’ una cosa un po’ strana… però quando vinci da tanti anni, non hai più amici in questo ambiente, perché sei visto come quello più fortunato, quello che riesce a vivere di downhill, mente gli altri non ce la fanno.
La maglia tricolore aiuta tanto, ma ti mette un po’ in disparte. Nel paddock non mi diverto più: mi piace soltanto andare in bici, ma non la vita delle gare. Quest’anno mi ha aiutato tanto Edoardo Franco e la sua famiglia, con suo papà Carlo, e Antonio Silva, che sono stati un punto di riferimento, una seconda famiglia, e mi sono tranquillizzato. Senza di loro sarebbe stata tragica. Dagli altri ho avuto zero.
A livello di competizione, nessun altro è stato in grado di vincere l’italiano per otto anni: significa che non c’è un ricambio generazionale.
Pensi di tornare o non hai ancora fatto progetti a lungo termine?
Non so. Ho una confusione assurda in testa: ho deciso che ho bisogno almeno di un anno, perché altrimenti non riesco a capire niente. Faccio schifo da una parte, faccio schifo anche in bici. Ho visto le ultime gare e lo spirito con cui le ho affrontate: arrivare in partenza messo così non mi piace, sono sempre sceso per divertirmi e per andare forte, partire teso e con mille problemi in testa non è più sport, perché puoi farti del male. Se la testa non è lì a guardare il sasso, concentrata, qualcosa non funziona.
Cosa ti piaceva di più del mondo delle gare?
Essere andato in giro per il mondo per otto anni, con i soldi degli sponsor e averne guadagnati. Invece di lavorare, ho corso in bici, ed era il mio lavoro. Ma il succo era scendere in bici, andare in bici, scegliere le traiettorie, tirare fuori il massimo dal mezzo meccanico: la passione.
Cosa ti piace di meno del mondo delle gare?
Tante persone, è triste dirlo. Alberto Ancillotti: una persona così non l’ho mai vista. Va bene la competizione, va bene il lavoro, va bene che vincere è meglio di perdere, però stiamo tutti un po’ tranquilli… Il mio obiettivo è correre, divertirmi, collaborare con gli sponsor e tirare fuori il meglio, ma non devo arrivare al punto di odiare la bici. Dopo la nostra separazione, Ancillotti ha parlato tanto male di me in giro, ma io non ho mai risposto. Non merita una risposta da una persona seria e che sa vivere, come mi reputo.
Dopo Ancillotti sono andato con GT, con il Biciaio, o Vincenzo Arlati, come si chiama all’ufficio anagrafe. Sono stato in trasferta in Canada, hanno perso la bici all’aeroporto e il Biciaio mi dice: «Se vuoi un’altra bici, te la devi comprare». Io sono un professionista, mi alleno tutti i giorni per vincere, sono il campione italiano e l’unico a fare le gare di coppa e tu, che sei il mio sponsor, mi dici che mi devo comprare la bici? Poteva dirmi che avevo rotto troppe bici, che costavo troppo, che non riusciva più a sponsorizzarmi, io mi cercavo un altro sponsor ed eravamo a posto; invece sono stato trattato male. Quella è l’unica volta che ho pianto per telefono. Poi, quando quest’anno Marco Milivinti ha vinto a Caldirola, in un periodo terribile per me e in cui la mia condizione fisica era tutt’altro che eccellente, ho visto il Biciaio esultare perché non avevo vinto io. Stiamo parlando di sport o di che cosa? Per vincere il campionato italiano a Pila, qualche settimana dopo, ho dovuto isolarmi da tutto e da tutti, con l’unico obiettivo di scendere più forte di tutti. Così si può fare, ma non è vita. Andare in bici non è come andare in cava. Non è assolutamente un mondo che mi piace. Non mi piace più.
In passato era diverso?
Quando andavo alle gare, anni fa, ci si ritrovava tutti alla sera per parlare di bici, di percorsi, di tante cose. Oggi, anche con i miei compagni di nazionale, quelli che mi guardano in faccia dicendo quello che pensano sono proprio pochi: vengo sempre a scoprire dopo che quello che mi hanno detto non è quello che pensano.
Poi, se si gira tutti insieme, io sono il “pirla” che deve stare davanti perché sono il più forte. Va bene, tu impari da me, ma permetti che io possa imparare qualcosa da te? Io faccio più forte un passaggio, tu ne fai più forte un altro: se magari ci aiutiamo, visto che giriamo insieme solo due o tre volte all’anno, magari andiamo un po’ più avanti in classifica e qualche secondo lo togliamo. Invece così continuiamo ad andare in giro da soli come delle capre, pensando di andare fortissimo, mentre gli altri girano tutti assieme e si aiutano.
Cosa manca al downhill italiano?
Dopo che ho vinto il terzo italiano, organizzatori e atleti continuavano a chiedermi come avrebbero dovuto essere i percorsi italiani perché il livello medio dei nostri atleti crescesse. Bruno Zanchi mi ha consigliato, per migliorare, di andare a correre all’estero. Però c’è sempre stato un piccolo problema: quando Zanchi vinceva, i percorsi italiani erano uguali a quelli di coppa del mondo, quindi tu ti allenavi in Italia, poi andavi all’estero e trovavi la stessa roba. Adesso siamo indietro anni luce nei percorsi, sia per tecnicità, sia per fisicità.
Oltre ai percorsi, ciò che fa la differenza è l’assenza di un gruppo, come ho già detto.
Chi ammiri?
L’unico che ha la testa, si impegna e dà le ore della sua vita per ottenere qualcosa è Milivinti: parla poco, come me, va in bici e suda ogni risultato, lo stimo.
A Edo (Edoardo Franco, ndr) voglio tanto bene, ma deve mollar ‘sti freni, deve togliere secondi, perché alla fine abita a Pila, ha tutto per poter emergere.
Molti altri fanno questo sport soltanto perché gli piace, ma ci mettono poco impegno.
A livello internazionale, cosa credi sia diverso?
E’ tutto completamente un’altra cosa. Mi ricordo al mondiale, scendevo con Wyn Masters, io mi schianto contro un albero, lui mi passa e si schianta contro l’albero dopo. Ci fermiamo e ridiamo. In Italia invece vanno tutti a testa bassa.
In coppa, chiedi agli altri dove passano: «Passi lì, ma stai in piedi? Allora al prossimo giro ci provo anche io». Non interessa a nessuno come ti vesti, cosa mangi o quand’è l’ultima volta che ti sei lavato, l’importante è capire come scendere dalla pista in meno tempo. Tu puoi imparare da loro, loro imparano da te. Anche io ho imparato da Luca Pittino, che non sarà il massimo del corridore, però a Pila, nel fango, faceva un passaggio che nessun altro riusciva a fare. In coppa, 200 persone sono tutte lì con lo stesso obiettivo, andare forte in bici. Se mi batti di mezzo secondo, dove lo hai rubato sto mezzo secondo? Dopo la gara ritrovi tutti al bar, e tutti salutano tutti. Steve Peat mi saluta, Greg Minnaar mi saluta, è lì che vince la coppa del mondo, può anche fare a meno di salutarmi, però viene lì, si siede e dice «Ciao Alan, come va?».
Se continuerà ad esserci rivalità e solo gente sparsa, in Italia non ci sarà mai niente di buono. Se ognuno gira da solo, tanto vale aspettare le classifiche e dopo mangiarsi le mani. Bisogna creare un gruppo che giri insieme, aiutarsi: uno tira l’altro. E i secondi li tiri giù, basta guardare come scendono gli altri per capire: se guardo il video di Sam Hill a Schladming capisco perché ho preso 20 secondi. E sono ancora pochi.
Qual è la cosa ti ha tirato su di morale quest’anno?
Sono tante, per fortuna.
Pragelato, perché mio papà mi aveva detto “domenica vai a vincere“, e ho vinto.
Pila, perché ho corso per vincere, e scendendo come scendevo a tutte le gare fino a qualche anno fa ce l’ho fatta. Ho fatto fatica, ma la soddisfazione è stata doppia.
Infine, la trasferta in Canada, perché ci siamo divertiti da morire. E’ stata una sagra, però è stato anche il mio miglior risultati in coppa quest’anno, segno che per andar forte bisogna divertirsi ed essere tranquilli.
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La replica di Alberto Ancillotti, sul blog del suo team.
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